Project Description
Knowing Pripyat è un libro fotografico di Enrico Vetri.
Ho visitato, in punta di piedi, questi luoghi. Ho conosciuto le persone che hanno visto la loro esistenza stravolta da quell’evento che ancora oggi faticano a comprendere. Con loro ho condiviso ricordi ed emozioni.
Ho lasciato che in silenzio la città si raccontasse e attraverso queste immagini ho voluto provare a darle nuovamente voce, così da poterla di nuovo ascoltare insieme al lettore.
Da parecchi anni fotografo, e in ogni scatto cerco di catturare il duplice impatto emotivo trasmesso sia dal soggetto ripreso sia da chi si trova dietro al mirino.
Mi è capitato di riprendere le più svariate situazioni, dalla cronaca al ritratto, ma in ognuna ho sempre cercato una forte empatia con chi o quanto si trovava davanti all’obiettivo. Farlo con persone o situazioni in rapida evoluzione è piuttosto semplice perché l’interazione è immediata, i fatti stanno accadendo in un preciso istante; nel ritratto espressività e dialogo durante il set sono la chiave dello scambio emozionale.
Ma quando si tratta di oggetti le cose cambiano, occorre pensare in doppio perché l’oggetto è in grado solo di proporsi per ciò che è, e il grosso del lavoro consiste nel percepire la sua storia e tradurla in uno scatto in cui siano comprese anche le sensazioni provate in quel momento. Rarissimamente è capitato che un oggetto fosse in grado di raccontarsi semplicemente mostrandosi. Opposta, se vogliamo, è la condizione che si ha quando si fotografano luoghi o manufatti; paesaggi e monumenti parlano da soli e non ci vuole un particolare “impegno” dal punto di vista emotivo per ottenere una foto significativa.
Tutt’altro discorso si deve fare quando il nostro interesse fotografico ha come soggetto l’URBEX, ovvero siti che ancora contengono tracce tangibili di chi li ha abitati. In questo caso è l’ambiente stesso che si racconta e parla di chi l’ha frequentato attraverso gli oggetti che ne rivelano le abitudini, e in situazioni del genere l’impatto emotivo raggiunge i massimi livelli poiché da interlocutori diveniamo ascoltatori; sono i muri, i mobili, le suppellettili che ci mettono a parte della quotidianità di chi lì è stato ed ha vissuto.
Se poi associamo a tale condizione un evento storico i cui effetti sono ancora riconoscibili, c’è la garanzia che il coinvolgimento emotivo provato sarà davvero qualcosa di unico. Quando tali situazioni accadono, la fotografia diviene davvero strumento narrante, ma occorre che il nostro ascoltare sia fatto nel pieno rispetto di quei luoghi e della gente che vi ha vissuto. In altre parole, evitando cioè di ricorrere alla creazione artificiosa di set fotografici che nel nostro intento possono rendere più “incisivo” lo scatto.
In certe situazioni è tutto l’insieme, nello stato in cui si trova, ad essere talmente incisivo da fornirci l’inquadratura che cerchiamo. Sta a noi trovarla. E se parliamo di Pripyat, non c’è molto altro da aggiungere.